27.12.08

La faentina (1999)

Dopo un tormentone di cinquanta anni riapre “La faentina”, la vecchia ferrovia che con un anello collega i vari paesi del Mugello tra loro e con Firenze. Finalmente le energie positive, la voglia di muoversi e vivere, hanno superato la resistenza degli immobilisti. Un evento raro da queste parti, che va salutato. Forse è l’inizio del risveglio del Mugello, un insospettato balzo di questa arcaica contrada verso la modernità. Alé, si va in Europa!

Una domenica mattina, pochi giorni dopo l’inaugurazione della riapertura della ferrovia, scendo verso la stazioncina di Fontebuona a vedere cosa succede. Che meraviglia ! Una stazione piccola, ma perfetta. Ammiro i suoi colori verde e blu, l’arredo, quel che ci vuole, nessuna esagerazione. Incredibile, complimenti ! I cestini con i sacchetti immacolati: accidenti, forse li cambiano ogni ora. Neanche una cicca in terra. Ma dove sono, in Svizzera ?

Tutto è tranquillo e silenzioso, anche troppo. Nel parcheggio tre auto, che scoprirò poi essere di altrettanti cacciatori, che stavano sparacchiando lì intorno. Nessuna altra presenza. Forse sono tutti dentro la stazione, frementi, a procurarsi il biglietto per non perdere il treno che da un momento all’altro sfreccerà sui binari.
Le porte sono tutte sbarrate: un avviso informa che per acquistare i biglietti occorre rivolgersi ad un ristorante da quelle parti.

Bé, insomma, il personale costa ed è giusto semplificare i servizi, preoccupandosi solo dell’essenziale.
Mi avvicino con cautela ai binari, osservando la bocca nera della galleria, aspettando che sbuchi il primo treno. Ho il tempo di apprezzare le bravure dei cacciatori, che di là dai binari fanno il pulito, unica presenza sul posto. Poi anche loro se ne vanno. Del treno neanche l’ombra.
Leggo l’orario, incollato sulla porta: il primo treno passerà alle tredici e trenta, cioè tra due ore, diretto a Firenze, dove, volendo, mi porterebbe, bruciando i quindici chilometri in meno di un’ora.

Un ultimo sguardo a questa piccola, magica stazione: mi fa pensare ad un documentario girato in un luogo dove da poco è scoppiata una bomba al gas nervino, quello che elimina i viventi, senza sciupare gli oggetti. Oppure ad una ricostruzione museale, Fontebuona com’era nel duemila.
In tal caso proporrei all’amministrazione di aggiungere una piccola statua che riproduca un ferroviere sorridente e magari un disegno sullo sfondo con il treno che arriva veloce e una persona che corre per non perderlo. Piccole bugie pietose, per non passare alla storia questa desolazione.

Riprendo la macchina e mi infilo sulla “bolognese”, dove già cominciano le file domenicali, e me ne vado con la sensazione di essere il primo (e ultimo) umano capitato lì.
In fondo non è l’unica “modernità” che per provinciale imitazione o per avidità verso i fondi della comunità europea o per orgogliosi sussulti delle amministrazioni, compare in queste lande passatiste, nell’indifferenza generale. Penso ai marciapiedi appositamente smussati agli incroci fiorentini, dove ovviamente nessun handicappato si è mai sognato di avventurarsi, ben sapendo che infiniti ostacoli lo aspetterebbero poco oltre.

Oggi, 2010, la stazione di Fontebuona, dopo anni di assoluta inattività, è stata ufficialmente chiusa, dice la PA, a causa del disinteresse dei cittadini, che (chissà perché?) preferiscono usare lʼauto, anziché il mezzo pubblico.

Amministrazioni ruspanti (1998)

In una delle desolate periferie fiorentine, piazza Dalmazia, passa un canale che, senza dire niente, va verso l’Arno. Un tempo c’erano piccoli orti, curati da gente del posto, relitti della “cultura contadina”; poi la modernizzazione degli amministratori ex-contadini li ha fatti sparire, lasciando al loro posto il vuoto, il nulla. Due grigi muri di contenimento e un filo d’acqua d’estate, un po’ di più in inverno, che scorre come su un’autostrada, trascinando lattine.
Poi ultimamente l’amministrazione si è un po’ addormentata, ha trascurato la “manutenzione”. L’assenza dell’amministrazione può fare miracoli. La natura ha cominciato piano piano a riprendersi; dalla tabula rasa del fondale hanno cominciato a crescere piante selvatiche, timidamente, disordinatamente; tanto non vale la pena darsi troppo da fare, visto che prima o poi tornerà l’amministrazione.
Invece è passato del tempo ed ho assistito ad un prodigio. In un punto vicino alla piazza è cresciuto un vero e proprio boschetto di canne; erba e piante rampicanti (chissà dov’erano) si sono fatte coraggio e tutti insieme hanno inventato una piccola oasi, uno scenario semplice ma suggestivo, anzi, visto il contesto intorno, commovente.
Sì perché non è finita qui: sono arrivate anche le anatre selvatiche, che si sono stabilite nel boschetto, passando la giornata nel piccolo laghetto che si è formato.
Ho visto la gente del posto incredula a guardare uno scenario così semplice, suggestivo e soprattutto venuto dal nulla. Sembrava di essere in una ridente cittadina olandese.
Qualcuno ha pensato di portare un paio di panchine e piano piano è diventata una consuetudine per molti sedersi lì ad ammirare i giochi delle anatre. Così anche la gente è entrata a far parte dello scenario e si è creato un minuscolo, spontaneo, armonico giardinetto, un giardinetto insolitamente animato, vivo, vero.
Tutta la piazza si è addolcita per questo suo angolo e tutto questo senza spendere una lira. Viene spontaneo fare confronti con i costosi e pacchiani “arredi urbani”, che l’amministrazione ogni tanto esibisce, che per fortuna incuria e vandalismo tolgono di mezzo rapidamente.
Decisamente troppo per l’amministrazione, che, forse nel timore di perdere il controllo su quella briciola di periferia, ha pensato bene un bel giorno di riprendere le dimenticate manutenzioni.
Davanti a pensionati sbigottiti, una fiammante, enorme ruspa è scesa nel greto, per la cd "messa in sicurezza". Con la pala, larga quanto il piccolo canale, ha raso al suolo tutto in circa tre minuti. E pensare che c’erano voluti almento cinque anni.
Nessuno ha aperto bocca: nemmeno io, nemmeno le anatre, in fila dignitose, immobili sulla piana fangosa a guardarsi intorno; poi sono sparite, chissà dove, forse a farsi sparare nelle campagne intorno. Tutti siamo stati lì a guardare inebetiti, come fosse stata una sciagura naturale.
Certo necessità di sicurezza idrogeologica non saranno mancate. Ma non mancano neanche in Olanda, dove piccoli canali come questo sono pieni d’acqua e usati, se non per comunicazioni, quantomeno come giardini acquatici, con anatre e bambini con barchette.
Ma forse l’Arno presenta problemi più complessi dello Zuider Zee, problemi tecnici che gli olandesi non si sognano nemmeno e che richiedono interventi duri, con il bisturi. "A Firenze ‘un si scherza, nini!" Amministrazione con le pale!

"Gli scienziati hanno detto" (1998)

E’ notte. Nella periferia di Pisa sto cercando un autobus per la stazione. E’ lì, enorme, vuoto, a luci spente. Dopo venti minuti partiamo: sono solo; alla stazione arriviamo in tre. Prima di scendere, per fare due chiacchiere, chiedo all’autista se l’azienda ha mai pensato di mettere, in linee periferiche come quella e a ore così tarde, bus piccoli, pulmini, con pochi posti, ma più frequenti.
“Gli scienziati hanno detto che questa è la misura perfetta”, mi informa. Ho la sensazione che riporti, con la sua buffa ingenuità, qualche proclama dei vertici aziendali.
“Il guaio - aggiunge - è che gli autisti non hanno voce in capitolo”.
Questo mi sembra un po' più sensato. Certo però che se gli autisti danno suggerimenti basati sulla “scienza”, anziché sulle loro ben più importanti osservazioni quotidiane, sono guai.

Sistemi normativi ubriachi (1997)




Sono stato sempre affascinato dagli studi di logica dei sistemi normativi, dove si esaminano tutte le forme di incoerenza che possono affliggere gli ordinamenti legislativi. Ci si sforza di immaginare e analizzare contraddizioni e lacune, pensabili, ma difficilmente rilevabili nelle leggi, così ben protette dalla ricchezza e ambiguità del linguaggio.
Pertanto quando guido l’auto sulle nostre strade italiane (o quantomeno toscane) provo l’emozione del naturalista, che dopo una vita di studi e supposizioni su specie di altri pianeti, sbarca su un mondo sconosciuto e si trova di fronte a tutto ciò che aveva immaginato.
Le nostre strade sono un magnifico laboratorio per il filosofo del diritto, a cui consiglio di interrompere i suoi studi astratti, per scendere con occhi aperti e devoti ad ammirare i viventi sistemi normativi stradali.
Folletti burloni ed ubriachi seminano sulle nostre strade fantasiosi coriandoli: i limiti di velocità. Sempre più numerosi e imprevedibili: lo stato sociale ha da spendere e vuole farsi notare; e poi si va in Europa !
Ogni giorno rimango incantato: neanche i più brillanti filosofi sono riusciti ad immaginare tutte leinnumerevoli forme che l’incoerenza normativa riesce ad assumere lungo le strade italiane.
Usciamo da Pratolino per Bivigliano: limite di 50 chilometri orari, ci dicono. Bene. Evidentemente stiamo entrando in un popoloso centro abitato. No. E’ una strada di campagna con cinque case in tre chilometri. Mah? 20 km ! Attenzione: ci sarà un pericolo in agguato, una frana o peggio. Niente. Ora ricordo che mesi fà fu riparata lì una buca sull’asfalto. Continuiamo. Ma dove finisce il limite di 20 ? Forse a Istambul. Fine del limite di 40, ci dicono dopo un po’. Perché 40 ?
“E dai - mi dice un amico empaticamente più vicino alle amministrazioni locali- si vede che avevano finito i cartelli di fine limite 20 e 50 e hanno messo quello che avevano!”.

“Ma sì ha ragione. Sono troppo pedante. In fondo basta un po’ di buonsenso per una giusta interpretazione di quella catena normativa”, mi dico.E invece nò. Questo era vero fino ad ora. I limiti erano prima dei semplici moniti: l’amministrazione diceva 10 per ottenere 50, attraverso la nostra interpretazione. Quindi 50 o 40 non faceva differenza. Inoltre gli scarsi controlli sdrammatizzavano la situazione, così che l’effettiva legge sulle strade nasceva di fatto dal buon senso dei guidatori.
Oggi nò. I rilevatori fotografici, che demagogia giustizialista, malinteso europeismo e fame di denaro delle amministrazioni aiutano a diffondersi, eliminano il principio dell’interpretazione ed introducono il criterio dell’esattezza e oggettività della valutazione.
Bèh i tempi sono cambiati. Già ma i limiti sulle strade sono gli stessi di prima, nati come già detto da un’attitudine ambigua. Quindi se prima 10 stava per 50, ora sta per 10. Buon senso avrebbe voluto che l’amministrazione rivedesse contemporaneamente sia i criteri di valutazione che i limiti. Ma siamo in Italia.
Cosa fare ora difronte ad un limite di 10 o 20 (e ce ne sono): lasciare spengere il motore, aspettando di essere tamponati o nella migliore delle ipotesi multati per intralcio al traffico ?Che dire poi delle esternazioni in materia del governo centrale ? Disquisizioni lunari (realistiche e raffinate, se fossimo in Svizzera), sulle tolleranze necessarie alle valutazioni delle infrazioni, dell’ordine di 1 o 2 km/ora ! Quindi tranquilli: 10 diventa 11 o addirittura 12 !
Sarebbe bene che più che i filosofi del diritto, i politici amministratori dessero un’occhiata alle nostre stupefacenti strade.
Tra le loro meraviglie, anche la piaga “sinistra” dei “comuni denuclearizzati” ! Quanti soldi buttati via e che inutile inquinamento estetico, per una manifestazione di stupidità pura ! (a meno che non ci sia un senso profondo che non arrivo a capire).
Cosa vuol dire ? che il Comune di Vaglia non intende costruire la bomba atomica? O che in questo territorio non si usa energia prodotta da centrali nucleari ? In questo caso sarebbe anche un falso, visto che la luce nelle nostre case arriva, per quel che ne so, soprattutto dalle centrali atomiche francesi (e italo-francesi).
Già ma quanti lo sanno? e quanti invece drogati dalla demogogia andranno poi a votare?

"Alé ! Si và in Europa !" (1997)

Alééé, alééé. Trionfo per la insperata qualificazione.
Non c’è niente da fare, per interpretare la vita pubblica italiana, o quantomeno il modo italiano di sentire la politica, occorre adottare il paradigma calcistico.
Mandare un politico del proprio partito al vertice di un governo, che altro è se non la vittoria dello scudetto ?
Cosa si aspetta il "popolo fanciullo" dall’”ingresso in Europa” ? Evidentemente la partecipazione ad una nuova favolosa competizione.

Oblitelale (1996)

“Come si dirà obliterare in cinese ?”, si chiede ad alta voce la controllatrice, mentre il treno sta per fermarsi alla stazione di Empoli. Termine oscuro in italiano, figuriamoci in cinese.

Una scena piuttosto penosa, senz’altro tragicomica, si sta svolgendo nello scompartimento, che vede protagonisti una funzionaria delle ferrovie ed un povero giovane turista cinese. Questi ha un’aria un po' scombussolata per il tono davvero violento della ferroviera e molto stralunata perché non ha la minima idea della ragione per cui è fatto oggetto di tanta aggressione.
Mostra il biglietto nuovo fiammante e si chiede come mai non vada bene, ma la ragazza ormai paonazza ed urlante insiste perché scenda alla prossima stazione ad “obliterare” il biglietto, senza naturalmente garantirgli di poter riprendere il treno stesso.

Anche molti italiani fanno fatica a capire questa perfida novità che obbliga, dopo le file alle biglietterie e tutto il resto, ad andare a caccia di quelle famigerate macchinette (sempre che funzionino) per annullare il biglietto. Cose mai viste nel resto del mondo, che solo la burocrazia italica riesce a concepire. Evidentemente esistono altri modi per scongiurare gli inconvenienti cui la macchinetta deve ovviare. Ma la burocrazia italiana non si pone il problema se le sue trovate siano di peso agli utenti o se comportino spese evitabili con soluzioni più intelligenti o addirittura spese superiori alle perdite scongiurate.
O forse invece sì ? La cosiddetta modernizzazione in Italia si manifesta immancabilmente, mi pare, in complicazioni crescenti, dispettose perché spesso superflue. Come una vendetta sul cittadino per un processo di cambiamento subito come un torto. “Vòi servizi moderni? Ora te li fò vedé io !”
Ma forse c’è anche una ingenua, “contadina” visione della “modernità”, che viene intesa come arcana e complicata: quindi soluzioni semplici, poco vistose, vengono scartate a priori perché ritenute poco “moderne”.

Il povero giovane cinese si guarda intorno disperato in cerca di aiuto. Nessuno, a cominciare dal sottoscritto, ha il coraggio di intervenire a difesa del malcapitato. Me ne vergognerò per il resto della mia vita. Oltre alla mia buona dose di vigliaccheria, mi ha frenato anche, chissà perché, il fatto che la ferroviera fosse una ragazza sorprendentemente giovane e molto, molto carina.
Scacciato dal treno, il povero cinese si precipita nella stazione col biglietto in mano, ancora ignaro del problema. Cosa sia successo all’interno non ho idea, certo un miracolo. Fatto sta che dopo un po' ritorna trionfante, sventolando il biglietto: “Oblitelale, oblitelale !”. Finalmente ha sciolto l’arcano, chissà cosa si era immaginato. Ora in Cina ci conosceranno oltre che per Marco Polo, anche per la favolosa pratica della “oblitelazione”. Il treno, per sua fortuna, aveva anche lui le sue cose da fare e si è fermato più del previsto e tutto è finito bene, all’italiana.

‘Un si pole ! 1996

“‘Un si pole !”, mi urla spaventato un compagno di viaggio fiorentino, mentre sto per sdraiarmi al sole, nel prato verdissimo davanti a noi, nel pieno centro di questa bella città svizzera.
Non c’è quasi posto, a quest’ora di pranzo; dagli uffici e dai negozi, armati di panini, tutti si sono stesi sull’erba. Erba verde, non un filo fuori posto. Certo il clima favorisce, la manutenzione è svizzera, nessuna cicca o carta per terra, né prima, né dopo.
“A Firenze, mi assicura orgogliosamente, l’amministrazione è più severa: nessuno può sedersi nei prati” (sempre che riesca a trovarli).
Ed è paradossale ma vero, che i pochi giardini esistenti, bensì così odiosamente tutelati, sono pieni di rifiuti e rovinati. A nessuno verrebbe voglia di sdraiarcisi e comunque ‘un si pole ! Sono più adatti semmai a parcheggiarci i motorini, da cui i fiorentini non riescono a separarsi nemmeno per dormire.
Mi colpisce comunque questo apprezzamento masochista per un’amministrazione che si preoccupa soltanto di manifestare i suoi muscoli, il suo potere di impedire. Questa è l’attitudine del suddito, che in fondo ammira il potere e chi lo sfoggia, anche se questo limita la sua libertà. Ma la libertà è un valore insignificante alla mente del suddito.

Macchine ladre (1994)

Che esperienza nuova e rilassante a Tokyo, il potersi muovere senza impedimenti, fluidamente, negli innumerevoli treni, che sottoterra ti portano come tappeti volanti in pochi minuti da tutte le parti della immensa città. Che sconosciuto senso di libertà, per uno abituato ai trasporti fiorentini: l’unico aspetto in comune che ho rilevato è stato il costo dei biglietti. Poveri italiani, non godere dei regali migliori della “modernità”, pur non perdendosi nessuno degli inconvenienti.

All’inizio il panico, lo ammetto: stazioni totalmente automatiche, senza (o quasi) un addetto cui chiedere chiarimenti. Gli unici interlocutori erano le macchine.
Le macchine ! Che scoperta ! Ci sono anche da noi macchine che in cambio di soldi ti danno biglietti, certo. Ma che differenza !
Io, lo confesso, le ho sempre evitate. La mia esperienza, vivendo in Toscana, mi ha fatto incontrare due tipi di macchine: quelle guaste e quelle che ti fanno dispetti, ad esempio dandoti il biglietto, ma non il resto. Macchine ladre, furbe, usate dall’amministrazione col doppio vantaggio di risparmiare nella spesa (macchine poco intelligenti e quindi poco costose) e di arrotondare il bottino.

In Giappone ho visto qualche volta squadre di tecnici biancovestiti, come dei medici, affaccendati intorno a macchine in difficoltà. Interventi tempestivi, per evitare il caos, visti i fiumi di gente che a grande velocità passano nei sotterranei delle metropolitane. Fermarsi un secondo a guardare il soffitto sarebbe da sconsiderati: produrrebbe un tamponamento tra pedoni, che solo gli automobilisti italiani sulle autostrade padane in inverno possono figurarsi. Per questo i giapponesi non possono permettersi una macchina guasta.

Le macchine si sa possono essere più o meno intelligenti e le prime certamente costano più delle seconde. Impressionante la capacità delle biglietterie automatiche di Tokyo nel riconoscere le banconote, in qualunque modo inserite, anche appallottolate.
Immaginabile lo sconforto al ritorno, quando nell’areoporto di Roma ho cercato di ottenere da una macchina italiana un biglietto per lo “shuttle”, il moderno treno che porta in città (e che a quel tempo scaricava i malcapitati in una landa buia e deserta, chissà perché lontana dalla stazione ferroviaria centrale verso cui inevitabilmente tutti cercavano di andare, alla mercé di pochi taxi nascosti nell’ombra).

Certo non avevo il treno dopo due minuti (tempo di attesa standard nelle stazioni di Tokyo), bensì una più italiana ora, quindi quel che ci voleva era giusto un passatempo.
Così mi sono acceso la pipa ed ho iniziato il duello. Devo ringraziare due simpatici signori argentini se non ho perso il treno (l’ultimo passaggio della sera verso Roma).
“Es una màquina muy sensible !”, osserva con affettuosa comprensione uno dei miei amici: qualunque piega o arricciamento delle banconote ne suscitava l’irritazione e il rifiuto. Superato questo ostacolo, si è trattato poi di indovinare quale fosse il verso “giusto” di presentare i soldi. Avevo dimenticato questo problema, caratteristico delle macchine “poco intelligenti”, perché costruite al riparmio con lettori più semplici.

Anche la tecnologia evidentemente subisce le influenze delle culture in cui opera e ad esse si ispira: perché stupirsi quindi di incontrare macchine pressappochiste e ladre in Italia ? Ma soprattutto penso che le macchine riflettano la mancanza negli amministratori che le scelgono ed installano, di rispetto per i cittadini, che finiranno per detestare sempre più la cosiddetta “modernità”.

Chiappalo, chiappalo ! (1994)

Il 5 è grande, il 5 è tosto, il 5 è unico; "ce l’invidiano in tutto ‘i mondo". Non è come tanti altri: ti fai dire da qualche confidente, che magari ha un parente nell’azienda, le usanze, oppure ti metti lì con pazienza, mezz’ora, un’ora, due, tre, ma alla fine li becchi tutti, proprio tutti. Come no ?
Ma non il 5. Inutile farsi illusioni. Il 5 è da specialisti, da cacciatori esperti e appassionati. Anzi da eletti. Pochi l’hanno visto. C’è chi dice addirittura che non esista, è un mito e mitomani sarebbero quelli (pochi comunque) che hanno il coraggio di dire di averlo preso una volta.
Non so cosa dire. Ho provato tante volte ad appostarmi, ma senza successo. Ma riconosco di essere un dilettante. Chissà, forse un giorno; è il sogno della mia vita. Da quando un vecchio professionista di caccia grossa mi ha raccontato la sua storia.
Cominciava ad essere un po’ stanco della sua vita, passata a cacciare leoni. Cominciava ad essere troppo facile, scontato. Non ne ricavava le emozioni di una volta.
Durante un viaggio di riposo in Europa, capitò a Firenze. Chi avrebbe immaginato che proprio in questa vecchia e provinciale cittadina, avrebbe ritrovato il senso della sua vita.
Doveva andare verso Novoli: il 5, gli dissero con un sorrisetto dispettoso.
Aveva tempo da perdere dopotutto, ma insomma aspettare a vuoto non diverte nessuno. Dopo un’ora cominciò ad innervosirsi. Si guardò intorno, cominciò a girare per il quartiere.
Chiese del 5: chi cascava dalle nuvole, chi si allontanava terrorizzato, chi giurava d’averlo visto, ma non si ricordava l’anno; chi assicurava che era passato pochi minuti prima, ma non da lì, dalla strada accanto.
Il mitico 5, suscitatore di visioni! Astuto, tosto, altro che i leoni. Facile sarebbe! Scopri prima o poi dove passa, ti metti lì e un bel giorno lo prendi: sarebbero buoni tutti. Il 5 no: è imprevedibile, creativo, estroso, bizzarro.
E’ la creatura più riuscita dell’azienda. "Ce l’invidiano in tutto ‘i mondo. E’ vengano a studiallo anche da ‘i Giappone!" Al 5 arrivano pochi autisti, pochi fantasisti rigorosamente selezionati. Parola dell’Azienda, altro che storie. A Firenze 'un si scherza!
Che sfida per un cacciatore! Si attrezzò con carte militari della zona. Bisognava controllare non solo le strade, ma anche le fognature e quant’altro: col 5 non si scherza. Così passò il suo mese di vacanza e finalmente la cattura.
E mi mostrò un logoro biglietto “obliterato” (sissignori, obliterato), con la scritta inequivocabile: ATAF linea 5.
Era commosso nel mostrarlo, il suo più prezioso trofeo di caccia.
Sarà stato autentico o un falso? Difficile dire: se ne è visti altri, per certo falsi, in mano a millantatori. Ma voglio, sì, voglio credere che questo sia vero; che questa magnifica creatura, il 5, esista davvero. Cosa sarebbe la vita senza la fantasmatica linea urbana numero 5 dell'Azienda Trasporti dell'Area Fiorentina?

Peretola (1993)

Aeroporto intercomunale, interregionale, intercompartimentale, internazionale, Amerigo Vespucci; insomma Peretola. Un vecchio nome campagnolo, un aeroporto piccolo, ma che c’è di male ? Anche se si deve andare in Europa, non c’è da vergognarsene, se funziona.
Era un po’ che non ci tornavo. Entro nel padiglione degli arrivi e vado verso la vetrata per vedere arrivare la mia ospite nella sala di ritiro dei bagagli. Ricordavo qui un’atmosfera festosa, parenti ed amici in attesa e saluti che si incrociavano da una parte all’altra della parete trasparente. L’ansia dell’attesa che si placava, permettendo di aspettare poi con calma il disbrigo della consegna dei bagagli.
Sono sorpreso nel vedere due signori praticamente sdraiati per terra, con la faccia appiccicata alla vetrata. Per un momento penso si tratti di una performance di professionisti, ingaggiati dall’amministrazione per divertire i turisti, secondo la vocazione della città.
Niente di tutto questo. Comincio a capire quello che è accaduto, per quanto grottesco sia. La vetrata non c’è più. O meglio c’è, ma è stata oscurata, per impedire la “disdicevole gazzarra” tra le due sale. “Si va in Europa, ‘un si pole !” Solo in basso è stata lasciata casualmente una fessura di pochi centimetri di vetro non oscurato e quindi ora salutarsi è quasi impossibile; solo qualche disperato si stende sul pavimento.
E’ sorprendente quante umiliazioni subiamo noi italiani da parte dell’amministrazione senza reagire ! Chissà quali supposte necessità di “ordine pubblico” avranno portato a questa sadica decisione. Provo a chiedere a due funzionari una spiegazione, ma mi rispondono con un sorriso sorpreso e incredulo. Sono esterrefatti per la mia arrogante curiosità: dare spiegazioni sul proprio operato è avvertita come lesa maestà, dalle amministrazioni italiane.

Horror naturae: flora e fauna, erbacce e bestiacce. (1992)

Gentile Direttore,
E’ autunno: sistemata la flora, ora tocca alla fauna.
Dopo il tradizionale rogo estivo dei boschi, ora inizia il massacro invernale degli animali selvatici. Questo è l'allegro ciclo annuale della distruzione dell'ambiente naturale in Italia.
Vivo nella campagna toscana ed ho modo di osservare quotidianamente l'atteggiamento di molti italiani verso la natura: un misto di indifferenza e disprezzo. Ma quello che trovo più sconcertante è l'analogo atteggiamento di coloro che hanno le massime conoscenze e responsabilità, come politici e giornalisti.
Il fallimento del recente referendum su caccia e pesticidi non ha suscitato in coloro che si occupano delle cose pubbliche la minima reazione ed esigenza di riflessione. Si parla fino alla nausea di cose futili e si ignora uno scontro politico che ha diviso il paese in due, oltre a rappresentare il primo allarmante esempio di boicottaggio programmato e dichiarato di una consultazione popolare.
Si direbbe che qualcosa connesso con i temi della caccia e dell'ambiente naturale in generale, spaventi politici e giornalisti, spingendoli al silenzio.
Che siano tutti cacciatori ? O davvero in Italia natura e ambiente non interessano proprio a nessuno, se non come argomenti di conversazioni salottiere e convegni, pretesto per trovare spazi politici ? E con quale coraggio i politici italiani vanno poi a criticare altri paesi, dove la distruzione della natura è almeno motivata da concrete necessità economiche e non da stupide e gratuite abitudini ?
Eppure Lei sa molto meglio di me quanto questi temi siano divenuti politicamente determinanti nei paesi europei più evoluti e più ancora negli USA, dove di recente il Segretario di Stato ha dovuto rinunciare ad una battuta di caccia in Mongolia, travolto dalle critiche.
Questo fa pensare e sperare che altrettanto avverrà in Italia, dove del resto già diciotto milioni di cittadini hanno espresso, tra molte difficoltà, il loro sdegno verso certe pratiche.
Torno a chiedermi e, gentilmente, a chiederLe perché politici e giornalisti italiani siano così muti, invece di farsi interpreti e sostenitori di un nuovo e sempre più diffuso modo di sentire i temi in questione, assumendo un ruolo attivo e formativo di fronte all'opinione pubblica.
Le sarei infinitamente grato se mi facesse conoscere la sua opinione.
Distinti saluti

Povero direttore, non può rispondermi. Perché ?
Paura. Giornalisti e soprattutto politici sopravvivono cavalcando interessi e sentimenti forti, forti talvolta nel senso più brutale del termine.
Non c’è dubbio che il clan dei cacciatori è fortemente determinato a difendersi, con ogni mezzo, pressappoco come il clan dei mafiosi. Questa, nell’insieme, è essenzialmente gente che maneggia armi, i custodi delle armi, la casta dei guerrieri di questo tempo e di questo popolo. E’ gente che rifiuta il civile confronto (vedi referendum) non tanto perché senza scrupoli, ma perché, scrupolosamente, non vuole tradire l’essenza morale di cui sono portatori, che è appunto la sopraffazione, la “legge del più forte”. Sopraffazione brutale sui più deboli: per la mafia, questi sono gli umani; per i cacciatori, gli animali (indice se si vuole di una leggera “sublimazione”).
Ed i guerrieri fanno paura, come vediamo appunto in politici e giornalisti, che evitano contrasti diretti, aperti con mafiosi e cacciatori, alla stessa maniera. Mentre una certa cautela verso i mafiosi è comprensibile, quella verso i cacciatori, se sono quegli sportivi innocui e giocherelloni che vogliono far credere, è meno giustificata. A meno che essi siano in fondo della stessa pasta e famiglia dei mafiosi, come ben sanno quei grandi sensitivi che sono i politici.
Sono, tutti assieme, i sacerdoti della violenza e della brutalità, i sostenitori di questi arcaici “valori”, che sembrerebbero risiedere nella primitiva zona limbica del nostro cervello e che a suo tempo hanno aiutato la razza umana, appena scesa dagli alberi, a sopravvivere a condizioni estreme. Mentre nei mafiosi questo è meno evidente, occultato dal fatto che essi perseguono in concreto loro interessi materiali, nei cacciatori questo è, mi pare, palese. Essi non hanno alcun interesse di rilievo a difendere il loro diritto di sterminio della fauna italiana, mi parrebbe. Quindi la loro accanita resistenza deve avere come obiettivo loro “valori” profondi, di natura quasi religiosa. E politici e giornalisti, con il loro grande fiuto, questo lo intuiscono e di fatto rispettano.
Non è tanto facile condannarli. In fondo, paura a parte, tengono presente e tacitamente rispettano una “minoranza religiosa”, una minoranza primitiva, che ci impedirà, finche esisterà, di dirci moderni, europei, ma pur sempre presente.
Inoltre, non si sa mai, il progresso verso forme superiori di civiltà, che tutti considerano certo e unidirezionale, potrebbe invece prendere una piega diversa e riportarci sugli alberi, mentre i nostri polli potrebbero crescere, ingigantire, uscire dagli allevamenti e darci la caccia, come i loro antenati dinosauri ai vecchi tempi. E allora per difenderci a chi potremo rivolgerci se non ai nostri cacciatori ? E questo i politici lo sanno.

Il “Bambi di Pratolino” (1992)

Scene di caccia e di follia in basso Mugello. (Dalla cronaca del quotidiano La Nazione).

Giuro che per quanto mi sia arrovellato non sono riuscito a capire se il cronista ha tenuta ben nascosta la sua voglia di ridere, anzi di sghignazzare, oppure di piangere, o se invece non ha avvertito nessuna stonatura in questa storia grottesca. Ritengo la seconda ipotesi, per quanto incredibile, più probabile.
Una domenica non lontano da Firenze una banda di cacciatori avvista "Bambi". E’ un povero cerbiatto nuovo del posto, appena comprato dall’amministrazione locale con i soldi dei contribuenti e sbattuto in questo mattatoio all’aperto. Aggredito, morso e inseguito da cani e cacciatori, si rifugia ferito e in stato di shock in un giardino privato di Pratolino, villaggio all’inizio della valle del Mugello.
Scatta schizofrenicamente il grande cuore italiano, lo “stato sociale”. La macchina dell’assistenza pubblica si muove alla grande, generosamente finanziata dai cittadini. Ambulanze, strumenti, operatori medici e paramedici, di tutte le “misericordie” del Mugello, in allegra competizione, tutto è in eccitata mobilitazione, per soccorrere lo sventurato. Che non si dica poi che l’amministrazione italiana è inefficente !
Dopo varie cure specialistiche e non, Bambi, forse nella prospettiva di essere “restituito all’ambiente”, decide comunque che è meglio morire, racconta un po’ seccato il cronista. Con grande delusione anche dei cacciatori, che dal “Bar dello sport” lo aspettavano per il bentornato.

Come interpretare questa folle ma "normale" quotidianità ?

Lamenti toscani (1990)

Non avendo mai scritto , mi aiuto come posso. A volte immagino di mettere un dito in gola, per vomitare immagini acide, cattive, che mi porto dietro da tempo. A volte penso che sto parlando della mia terra, cui bene o male appartengo, per trovare un sorriso benevolo. A volte penso a Simenon, per trovare quel tono minore nel raccontare, che mi affascina, o a Tozzi che così dolorosamente ha sentito e raccontato la cruda anima toscana.
A volte mi vesto da viaggiatore inglese di un tempo e apro occhi stupiti su questo paese ancora selvaggio. Vorrei raccontare le ipocrisie di questo popolo retoricamente orgoglioso delle proprie origini contadine, ma che ha dimenticato le cose belle che conosceva, rinnegando di fatto la cultura di origine, che sembra quindi piuttosto odiare.
Un popolo che della cultura contadina ricorda e rivive solo gli aspetti peggiori, come la brutalità verso le piante e gli animali, “erbacce” e “bestiacce”, in un mondo moderno, specie europeo, così sensibile verso la natura.
Malumori si trasformano ogni estate in incendi dei boschi, squadre di costosi "operatori ecologici" si accaniscono contro le "erbacce" che "deturpano" le viuzze collinari, mentre nelle città alberi imponenti vengono "potati" mediante decapitazione, "tanto sò malati".
Vecchi rancori, la sensazione di vivere una rivincita di classe (“cacciavano i padroni, ora si caccia noi !”), spingono ogni giorno ex-contadini, nelle campagne espropriate e abbandonate (timidamente neocolonizzate da ex-cittadini, idealisti assediati nelle loro case), a distruggere quel poco che resta della natura, con giusto orrore degli stranieri che hanno modo di osservare.
Spero che questi lamenti non siano troppo noiosi e attirino l'attenzione sulla diffusa mancanza di rispetto per la natura nel nostro paese e sui condizionamenti culturali che ne sono alla radice.

Incendio a Montesenario (1980)

Finalmente riesco a lasciare questa città, buona per turisti di passo (passo veloce, per non farsi spennare), ma non per viverci, come gli stessi fiorentini cominciano a capire. Vado a vivere in campagna. Le campagne sono abbandonate, quindi, penso, potrò stare tranquillo, nel silenzio.
Una sinfonia di spari mi sveglia la mattina e mi mette addosso una tensione febbrile, come un soggiorno a Beirut negli anni ottanta. Pazienza, non si può avere tutto.
Un pomeriggio, chiuso in casa a finire i restauri, vedo oscurasi il sole. Un incendio vicino casa. “E’ Quirino che si sbizzarrisce”, saprò poi. Il vicino pastore di pecore, che come vuole una consuetudine un po’ avventurosa brucia le erbe secche per rinnovare il pascolo. Ma poiché oggi “‘un si pole”, l’amministrazione l’ha drasticamente proibito, dopo aver acceso il fuoco è costretto a fuggire. E così anche il fuoco, da solo, va di qua e di là.
La cosa si ripete regolarmente e tutti sanno, amministrazione compresa, ma la legge è salva. Aspetti pratici di poco rilievo per l’amministrazione, a cui in fondo gli incendi non interessano granché, tutta occupata com’è nell’affermazione del suo potere virtuale.
Arrivano le “forze dell’ordine”, nell’ordine: carabinieri, forestale (a ruota), finanza (?), polizia, marina (erano in visita da parenti qui vicino e sono venuti a dare un’occhiata). I più attrezzati sono le guardie forestali, che hanno una pala; al resto provvedo io, che porto quel che ho. Per fortuna con scope e pale, si riesce a fermare il fuoco, che stava andando giusto verso la mia casa.
A proposito, e i pompieri ?
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